Di
mercoledì, le riprese di una breve sequenza di un videoclip. In uno studio
fotografico. Passiamo tutto il giorno a comporre inquadrature, a cercare di
imitare, riprodurre, citare programmi televisivi morti da cinquant’anni.
L’atmosfera è simpatica, vitale. I musicisti professionali. Le coriste muovono
gli occhi, a volte inquiete, a volte confidenziali. Prima di sera abbiamo
concluso il lavoro, e credo sia venuto bene. Facciamo foto, a gruppi, come a
scuola, dopo gli esami di maturità, quando pensi che finalmente anche
l’amicizia stia maturando, e invece è lì per dileguarsi. Quando rientro a casa,
mi metto a scorrere le riprese, provo a deformare l’immagine, a correggere i
colori. Sono soddisfatto. Abbastanza. Intanto il gruppo su WhatsApp si riempie
delle foto scattate qualche ora prima. Tutte immagini divertenti. Molte possibili
locandine, copertine, fermoimmagine di presentazione. E mi accorgo che io non
ci sono mai. Sono dietro la macchina fotografica, o dietro la videocamera.
Al
mattino, di giovedì, trovo un’immagine che qualcuno di loro mi ha inviato con
un messaggio privato. Finalmente una foto dove ci sono anch’io. Finalmente. Si
vede il cantante, al centro del quadro, la scenografia bianca e luminosa
intorno a lui, un pezzo di strumento, sulla destra, e una porzione del mio
braccio, a ridosso del bordo sinistro dell’inquadratura. Niente di più. Questo
è il grado più alto di presenza del corpo. Un trancio di braccio. Il resto si
indovina. Il resto del corpo è fuori campo.
Qualche
tempo fa chiacchieravo con qualcuno che ragionava sulle tracce che la nostra
civiltà lascerà nel tempo. Su quanto di noi resterà, di qui a mille, cinquemila
anni. Gli uomini che costruivano le Piramidi, involontariamente mostravano la
propria presenza e i propri bisogni anche a me. Dialogavano con me, in uno
spazio lontano. E in un tempo lontano. Centinaia di migliaia di giorni lontano.
Questo testo che sto scrivendo adesso si dissolverà molto prima. Nella mia
scrittura di oggi si legge l'ansia di tenermi distante dalla materia. E
questa distanza, questa volontà di fuga è desiderio di scomparire presto. Non
lasciare tracce. Come la donna di Dreyer che cerca con lo sguardo l’assente.
Imprigionata da falsi muri bianchi e anoressici. Come quello scrittore, immerso
nella propria angoscia, che sognava la felicità di ricevere una busta da lettera,
da cui zampillava una fontana di fogli e frasi d’amore scritti dalla sua donna.
Un orgasmo di carta, in differita. Rappresentato. Allontanato. Rinviato. E solo
sognato, per di più.
Strade strette,
di notte. Dettaglio dello schermo di un cellulare. Le lettere luminose di un
sms. “Apri, ché faccio fatica a bussare alle porte chiuse”. Soggettiva di
qualcuno che si avvicina alla porta di una casa, al piano terra. La porta è
aperta. C’è una donna seduta a un tavolo. Sorride. Totale della stanza. L’uomo
si siede sul bracciolo del divano. Lei guarda il suo telefono, appoggiato lì
vicino. “Ah, mi avevi inviato un sms? Non lo avevo letto”. Primo piano di un
bambino di pochi anni, con un grembiulino azzurrino. Guarda in macchina
interrogativo, stupito, spaventato. “Ci sono anch’io nelle foto?”. Primissimo
piano della donna. Riempie tutto lo schermo. Sorride, e il sorriso deborda
dalla prigione dell’inquadratura. “Perché me lo chiedi? Non vuoi esserci. Non vuoi
esserci?”
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