Pomeriggio
di tarda estate. La macchina ferma sul ciglio della strada. Dal finestrino
aperto vedo la sua figura femminile, di schiena, che scarica una busta nel
secchione giallo della plastica. Tra il secchione e il legno del palo della
luce ci sarà un metro circa. E lì, in quell’intervallo stretto, si muove una
figura. Piccola, lontana, vestita di rosso. È una donna che sta lavorando la
terra, piegata su un campo arato color aridità. Dietro di lei, ancora più
distante dal mio finestrino, un trattore fa manovre che non riesco a decifrare.
C’è un po’ di vento che riempie l’immagine. Penso che potrei lavorare su questa
inquadratura fissa, giocare con la profondità di campo, col contrasto tra la
figura giovane, contemporanea, in primo piano, e quelle lontane, rurali, che
sembrano il riverbero della memoria collettiva. Memoria trascorsa, ma solo in
apparenza. Immagino di accentuare il contrasto tra i vari piani narrativi. Lei
potrebbe voltarsi e avere tratti più accentuatamente moderni, potrebbe
controllare lo smartphone o avere una pettinatura particolare, eccentrica.
Creare un conflitto, un conflitto interno alla memoria.
Ma subito
immagino di zoomare sullo sfondo, sulla donna e sul trattore, mettendo in
risalto il dettaglio; ingrandirlo, dargli importanza, permettendogli di
conquistare una porzione molto più ampia dello schermo.
Ma no!
Non è così che si lavora con la profondità! Non dovrei zoomare… Le figure della
memoria devono restare sullo sfondo, piccole, marginali. È lo sguardo che deve
sorprenderle, come un significato remoto. Riconoscerne il valore nascosto
dietro la piccolezza, la contingenza passeggera, inutile.
Il
problema è che non mi fido dello sguardo. Non riesco più a fidarmi.
Immediatamente penso che una inquadratura del genere, prolungata, magari anche
ben costruita, sarebbe comunque inefficace, non acchiapperebbe l’attenzione
degli interlocutori. Annoierebbe. Ci vorrebbero ampi schermi spalancati nel
buio di una sala cinematografica, mentre adesso la gran parte dei film o video
si guardano su superfici piccole, in stanze illuminate e distratte.
Io stesso
mi sento distratto. E quest’immagine mi regala un gusto troppo rapido e
passeggero, con un lungo retrogusto amaro.
Sembra
davvero che il tragico, la bellezza del tragico, la profondità del tragico che
tuona dal sottosuolo sia scomparsa dallo schermo. Dalle immagini. Non riesco a
indovinarla dietro al costume. Non riesco a spogliarla. Come accade nei sogni,
nebbiosi, noiosi, insensati; piatti riflessi della quotidianità, fantasmi
esangui. E poi li spogli, scavi nelle figure che emergono dal sonno, e ti
accorgi di quanta polpa, quanto succo c’è. E mostri e demoni e archetipi. E
madri, omicidi, stupri e orrore. E desiderio terribile.
Ma è
troppo faticoso solo il pensare di sollevarmi da questo torpore, temperare la punta
dello sguardo e bucare le ombre che mi danzano davanti, affacciarmi
sull’universo che si apre dietro il sipario, cercare il punto di fuga verso cui
tutti i fantasmi tendono.
La scena
madre è stata cancellata. Il duello, l’omicidio. L’urlo catartico del totem
sgozzato, il fragore del corpo fatto a pezzi e divorato non li sento più. Il
film è costruito sull’attesa di un incontro, uno scontro, una lotta feroce che
non si verifica mai. Un appuntamento perennemente rinviato, il corteggiamento telefonico
tra il Bianconiglio e un fantasma. Baci e amplessi virtuali.
L’ultima
scena di Cashè, di Haneke.
Inquadratura fissa sull’ingresso della scuola. Lunga inquadratura. La gente si
muove. Genitori, ragazzi, automobili. E l’occhio della cinepresa insiste,
ossessivo, martellante. Quante volte ho visto questa scena. E solo dopo molte
volte mi sono accorto che lì, in basso a sinistra, avviene un incontro
importante tra due personaggi del film. Un evento che dà alla narrazione un
significato nuovo, inatteso. Aperto. Eppure era lì, e non l’ho mai visto. L’occhio
era completamente aperto e non ho visto nulla. Come lo sguardo vitreo di un
cieco. Come una colpa dimenticata. Come un desiderio rimosso.
Qualcuno incontra
lungo la strada un uomo addormentato a cui una serpe è entrata in gola. E il
suo morso può trasformare il sonno profondo in morte. “Mordi!”, gli urla,
perché l’uomo si svegli e stacchi la testa della serpe. E rida, come nessuno
mai è stato udito ridere.
Speriamo
che il sonno non sia già troppo profondo. E che l’uomo senta l’urlo.
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