domenica 4 ottobre 2015

I ragazzi di quarta criticano Platone. Qualcuno mi dice che è “tutto fumo”. Probabilmente il mio odio per la sua filosofia ultraterrena trapela, mentre lo spiego. L’insufficienza delle prove dell’immortalità dell’anima, il disprezzo per il cavallo nero. Socrate che manda via sua moglie, perché il suo pianto e la sua disperazione gli impediscono di morire in equilibrio. L’omaggio reso ad Asclepio, perché guarisce dalla malattia della vita. Racconto ai ragazzi la leggenda di Kleombrotos, che si getta dalle mura della città, dalle mura della vita, dopo aver letto Platone, felice di abbandonare il corpo. Verso la certezza immutabile dell’idea. E mentre continuo a spiegare non nascondo più il mio dissenso, l’impossibilità di sopportare il suono di una maledizione antica lanciata sull’Occidente.
Ho due ore di buco, prima di un’altra lezione. Vado verso il mare, non so perché. Giornata di autunno precoce, piovosa, cupa. C’è molto vento. Mi fermo davanti al parapetto, un paio di metri al di sopra del livello del mare. Grigio, tormentato, violento. Sembra che sia stato appena versato. Sembra che l’inconscio abbia violato le pareti del torace, del cranio. Frastuono. Lo guardo sotto di me. E comincio a immaginare come inquadrarlo. Come inquadrare quelle poche figure che camminano sul lungomare semideserto. Anche loro un po’ stupiti, come fosse appena inziato lo spettacolo del mondo. Penso che potrei riprenderli da lontano, magari con un tele. Schiacciare quel ciclista anziano, spettinato, contro lo sfondo del mare che ruggisce. E immaginare una storia, un racconto, un motivo per cui il personaggio debba fermarsi qui, davanti a quest’acqua, per qualche minuto. Tristemente. Come in attesa. Come abbandonato. Mi accorgo che anch’io mi posiziono in modo innaturale, badando al rapporto geometrico tra la mia figura e lo sfondo. Badando all’illuminazione diffusa, a come il grigio dell’autunno può togliere vivacità al colore della mia giacca.
Mi stufo di questo spettacolo, di queste immagini scontate. Entro nel bar. Dal vetro del locale si vedono ancora i cavalloni rimescolarsi e divorarsi l’un l’altro. Ma la radio accesa manda una musica che copre il rombo dell’acqua, una musica senza toni gravi, chiacchiericcio ritmato e appiccicoso. È strana la dissonanza tra questo sonoro e l’immagine di là dal vetro. Mi ricorda un film di De Oliveira. Poi, improvvisamente, parte una canzone vecchia di una ventina d’anni. Una di quelle che tormentavano le estati di inizio anni ’90. E parla del mare, di lui che parte in moto, convinto di trovare lei. E poi arriva sul molo, ma lei non c’è. E allora la voce si chiede “Cosa sono venuto a fare?”. Tristemente.
Mi stufo anche di ascoltare le crisi lontane di Luca Carboni, e apro il libro. Provo a passeggiare un po’ con Volponi, con i suoi personaggi. Guido e Letizia sulla spiaggia di Pesaro. Il loro dialogo, i loro impermeabili discreti, il loro provare a sfiorarsi, e poi evitarsi, girare lo sguardo altrove, dire l’opposto di quello che pensano. Dire quello che non sentono. Non dire quello che sentono. E camminare sul bordo del mare, sul limite di questo frastuono invadente, che corteggia la roccia da milioni di anni, a ogni secondo. E non smette mai. E non la conquista mai. Come l’amplesso del primo episodio di Al di là delle nuvole, con gli amanti che tracciano l’uno il contorno dell’altra, ma senza mai toccarsi, senza mai mescolarsi. Nella nebbia di Ferrara. E Ines Sastre che non si toglie nemmeno le mutande.
È lì che fiorisce l’arte? In questa tristezza compiaciuta? In questa cintura di castità sollevata tra la città e il mare? Coltiviamo fiori nello spazio tra un sampietrino e l’altro. Nell’abisso che si apre tra due materassi a una piazza. Sul bordo della vita. È possibile pensare un’arte diversa? Girare un film che non affondi le radici nella rinuncia, nella censura, nel desiderio di abbandono, nel piacere dell’abbandono? Nel desiderio di un mondo ideale che non deve mai piovere a terra? Se dopo qualche istante si fosse avvicinata la moglie del ciclista spettinato, lui le avesse sorriso e fossero andati via insieme, probabilmente avrei buttato via il personaggio. Sarebbe sfiorito il mio interesse.
Vorrei tanto incontrare Platone. E strangolarlo.
Uno dei tanti frammenti di pellicola. Un uomo al volante di un’auto guida, su una strada cittadina. La strada curva lievemente verso sinistra. I finestrini sono abbassati a metà. Il tipo guarda avanti. La videocamera potrebbe essere collocata sul sedile posteriore, e vedere il mondo che viene incontro, dal parabrezza, e una porzione del braccio e della mano del conducente. Sulla sinistra, sul bordo del marciapiede, si ferma una donna, probabilmente deve attraversare la strada. Vestita di verde e bordeaux. Qualcosa di esotico. Qualcosa di molto familiare. Inquadrata a spalla dal finestrino sinistro. La figura è tagliata a metà dal bordo superiore del vetro. Primo piano del conducente. Mantiene lo sguardo fisso in avanti, per evitare l’incrocio. Per evitare lo sguardo. La figura della donna scorre all’indietro, lungo il parabrezza, i finestrini, il lunotto. Inquadrata a spalla dal sedile posteriore. Come seguita dallo sguardo di un bambino portato in macchina dai genitori. Senza capire perché. E senza capire per dove.

Forse non è Platone che va strangolato.

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