I ragazzi
di quarta criticano Platone. Qualcuno mi dice che è “tutto fumo”. Probabilmente
il mio odio per la sua filosofia ultraterrena trapela, mentre lo spiego.
L’insufficienza delle prove dell’immortalità dell’anima, il disprezzo per il
cavallo nero. Socrate che manda via sua moglie, perché il suo pianto e la sua
disperazione gli impediscono di morire in equilibrio. L’omaggio reso ad
Asclepio, perché guarisce dalla malattia della vita. Racconto ai ragazzi la
leggenda di Kleombrotos, che si getta dalle mura della città, dalle mura della
vita, dopo aver letto Platone, felice di abbandonare il corpo. Verso la
certezza immutabile dell’idea. E mentre continuo a spiegare non nascondo più il
mio dissenso, l’impossibilità di sopportare il suono di una maledizione antica
lanciata sull’Occidente.
Ho due
ore di buco, prima di un’altra lezione. Vado verso il mare, non so perché.
Giornata di autunno precoce, piovosa, cupa. C’è molto vento. Mi fermo davanti
al parapetto, un paio di metri al di sopra del livello del mare. Grigio,
tormentato, violento. Sembra che sia stato appena versato. Sembra che
l’inconscio abbia violato le pareti del torace, del cranio. Frastuono. Lo
guardo sotto di me. E comincio a immaginare come inquadrarlo. Come inquadrare
quelle poche figure che camminano sul lungomare semideserto. Anche loro un po’
stupiti, come fosse appena inziato lo spettacolo del mondo. Penso che potrei
riprenderli da lontano, magari con un tele. Schiacciare quel ciclista anziano,
spettinato, contro lo sfondo del mare che ruggisce. E immaginare una storia, un
racconto, un motivo per cui il personaggio debba fermarsi qui, davanti a
quest’acqua, per qualche minuto. Tristemente. Come in attesa. Come abbandonato.
Mi accorgo che anch’io mi posiziono in modo innaturale, badando al rapporto
geometrico tra la mia figura e lo sfondo. Badando all’illuminazione diffusa, a
come il grigio dell’autunno può togliere vivacità al colore della mia giacca.
Mi stufo
di questo spettacolo, di queste immagini scontate. Entro nel bar. Dal vetro del
locale si vedono ancora i cavalloni rimescolarsi e divorarsi l’un l’altro. Ma
la radio accesa manda una musica che copre il rombo dell’acqua, una musica
senza toni gravi, chiacchiericcio ritmato e appiccicoso. È strana la dissonanza
tra questo sonoro e l’immagine di là dal vetro. Mi ricorda un film di De Oliveira.
Poi, improvvisamente, parte una canzone vecchia di una ventina d’anni. Una di
quelle che tormentavano le estati di inizio anni ’90. E parla del mare, di lui che
parte in moto, convinto di trovare lei. E poi arriva sul molo, ma lei non c’è.
E allora la voce si chiede “Cosa sono venuto a fare?”. Tristemente.
Mi stufo
anche di ascoltare le crisi lontane di Luca Carboni, e apro il libro. Provo a
passeggiare un po’ con Volponi, con i suoi personaggi. Guido e Letizia sulla
spiaggia di Pesaro. Il loro dialogo, i loro impermeabili discreti, il loro
provare a sfiorarsi, e poi evitarsi, girare lo sguardo altrove, dire l’opposto
di quello che pensano. Dire quello che non sentono. Non dire quello che
sentono. E camminare sul bordo del mare, sul limite di questo frastuono
invadente, che corteggia la roccia da milioni di anni, a ogni secondo. E non
smette mai. E non la conquista mai. Come l’amplesso del primo episodio di Al di là delle nuvole, con gli amanti
che tracciano l’uno il contorno dell’altra, ma senza mai toccarsi, senza mai
mescolarsi. Nella nebbia di Ferrara. E Ines Sastre che non si toglie nemmeno le
mutande.
È lì che
fiorisce l’arte? In questa tristezza compiaciuta? In questa cintura di castità
sollevata tra la città e il mare? Coltiviamo fiori nello spazio tra un
sampietrino e l’altro. Nell’abisso che si apre tra due materassi a una piazza.
Sul bordo della vita. È possibile pensare un’arte diversa? Girare un film che
non affondi le radici nella rinuncia, nella censura, nel desiderio di
abbandono, nel piacere dell’abbandono? Nel desiderio di un mondo ideale che non
deve mai piovere a terra? Se dopo qualche istante si fosse avvicinata la moglie
del ciclista spettinato, lui le avesse sorriso e fossero andati via insieme,
probabilmente avrei buttato via il personaggio. Sarebbe sfiorito il mio
interesse.
Vorrei
tanto incontrare Platone. E strangolarlo.
Uno dei
tanti frammenti di pellicola. Un uomo al volante di un’auto guida, su una
strada cittadina. La strada curva lievemente verso sinistra. I finestrini sono
abbassati a metà. Il tipo guarda avanti. La videocamera potrebbe essere
collocata sul sedile posteriore, e vedere il mondo che viene incontro, dal
parabrezza, e una porzione del braccio e della mano del conducente. Sulla
sinistra, sul bordo del marciapiede, si ferma una donna, probabilmente deve
attraversare la strada. Vestita di verde e bordeaux. Qualcosa di esotico.
Qualcosa di molto familiare. Inquadrata a spalla dal finestrino sinistro. La
figura è tagliata a metà dal bordo superiore del vetro. Primo piano del
conducente. Mantiene lo sguardo fisso in avanti, per evitare l’incrocio. Per
evitare lo sguardo. La figura della donna scorre all’indietro, lungo il
parabrezza, i finestrini, il lunotto. Inquadrata a spalla dal sedile
posteriore. Come seguita dallo sguardo di un bambino portato in macchina dai
genitori. Senza capire perché. E senza capire per dove.
Forse non
è Platone che va strangolato.
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