venerdì 1 gennaio 2016


Una persiana aperta, di notte, e fuori la via lunga e stretta. In basso l’acqua. Non c’è l’asfalto o il grigio ottuso del marciapiede, ma acqua. Come nel finale di un film, o in un sogno. Le case, gli edifici poggiano sull’acqua. Lanciando uno sguardo svelto, in fuga, oltre la finestra, vedo il movimento continuo di questo fondo liquido, precario, da cui tutto emerge. Come un monito. Come un tizio che ti sorveglia davanti al portone. L’eleganza di una città costruita sulla paura, sulla fuga da un aggressore. L’origine e il destino di questo sistema architettonico è così evidente, la sua grazia, le delicate composizioni si arrampicano dall’impalpabile, e lentamente sprofondano nell’impalpabile. Dovrei fare foto in formato verticale, allungate, per catturare queste strane lacrime nere che scendono giù dalle finestre, questa corrosione. Per catturare le rughe di questa donna straordinariamente attraente, soprattutto se sorpresa in pigiama, spettinata, struccata. Di malumore.
E scatto foto. Centinaia. Assillato dalla maledizione della libertà digitale. Provo ad appropriarmi di tutto. Correggo la mia posizione, inclino leggermente il corpo, premo tre o quattro volte il pulsante. Ogni volta sento che sto per afferrare, acchiappare la perfezione. Che sarà l’ultima foto, quella definitiva. Come guardarsi continuamente allo specchio, con chissà quali silenziose aspettative. Con chissà quali ambizioni. E ogni volta il riflesso risponde “Non ancora”. Non qui. Non ora. Non tu.
Al di là del vetro, nella hall di un albergo, vedo una ragazza orientale, seduta, con lo sguardo rivolto in basso. Legge qualcosa, una guida, forse. La luce del locale è rossa, e le taglia il viso senza troppo contrasto. Ho già fotografato un bel po’ di visi dell’Estremo Oriente, qui; ce ne sono tanti. Ma mi convinco che questo sia quello a cui non posso rinunciare. Comincio a litigare con la vergogna, con l’imbarazzo, con la paura di essere visto. Con il terrore che la ragazza sollevi gli occhi e guardi in macchina. E mi interpelli. E giro su me stesso, arretro di qualche passo, poi avanzo, provo a travestirmi da fotografo spensierato, disinvolto, gioioso. Non riesco. Non è vero. Giovanna e Lorenzo si sono fermati una decina di metri più avanti, mi aspettano. Io mi comporto come se dovessi abbandonare tutto per questo profilo immerso nella luce rossa. Ma anche come un innamorato goffo e inesperto che non sa dichiararsi. Goffo, ridicolo. E colpevole. Che ha paura che il riflesso gli risponda di no. Non ora. Non tu.
Rinuncio alla foto.
Qualche giorno fa, durante un pranzo, un’amica mi dice di soffrire di diplopia. Mi spiega che vede gli oggetti doppi. La conosco da anni, ma non lo sapevo. Resto molto sorpreso. Le chiedo di farmi un esempio. Lei si volta, mi indica il cameriere che si trova a una decina di metri, e mi spiega che ne vede due. Le chiedo “Ma quindi, ogni volta che ci incontriamo tu vedi arrivare due me, non uno…”. Mi risponde di sì. Immediatamente, con stupida sincerità, domando: “E come fai a capire qual è quello vero?”. Sorride.

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