domenica 4 marzo 2018

Esempio 1. Il percorso dall’auto parcheggiata fino alla piazza dura circa otto minuti. Un cortometraggio. Una narrazione che si dispiega come una lunga soggettiva fluida, ruffiana. E il regista fa pulsare il racconto, alterna piani più ampi a dettagli riflessivi. L’espressione intontita e meravigliata di un anziano fuori dal bar. La schiena rossa lontana di una ragazza che si sporge dal parapetto di una terrazza mistica. La strada lunga, irregolare, e le formiche fantasma che la percorrono ordinate, pensose. Un ragazzo africano mi taglia la strada, mi sorride. Come fosse amicizia. E invece è una transazione commerciale: dopo una ventina di secondi lui va via con due euro, io con la conferma di appartenere alla categoria degli europei generosi. L’incontro è durato il tempo necessario. Come un’inquadratura di un western di Ford. Come lo sguardo sul deserto nord-americano o su un gruppetto di Apache pennuti. Il ritmo della narrazione prosegue fluido, vivace, armonico, coerente: i selvaggi di Ford hanno assolto la loro funzione e scompaiono, divorati dalla grande catena di montaggio dello sviluppo drammatico del film. Il ragazzo africano ha assolto la sua funzione di breve pausa nel mio percorso lineare fino alla piazza. Una digressione nella narrazione. Digressione solo apparente, però, se serve a definire la fisionomia caratteriale del protagonista: civile, disinvolto, disponibile a rallentare la marcia. Nell’economia del cortometraggio questo calo di ritmo è necessario, come in una sinfonia – una composizione di immagini orchestrata con mestiere dal regista e dal montatore: dettaglio sul viso dell’anziano davanti al bar; campo lungo con ragazza lontana di schiena; breve dialogo affettuoso e aperto con il ragazzo di colore; campo lungo, dinamizzato dalle formiche pensose che percorrono la via; primo piano in movimento di un passante che saluta guardando in macchina; sampietrini, nuvole sporche, sonoro confuso, ma ben distribuito. Il film funziona. Il treno viaggia.

Esempio 2. Davanti alla caffetteria. Ascolto il ragazzo senegalese parlare con me e Giovanna. Parla a lungo, spiega, chiarisce, cerca i termini giusti. La sua voce cammina su una strada dissestata, piena di buche e crepe. Racconta di un fratello che vive in un’altra città. Lascia il discorso sospeso, lo aggancia a un altro che riguarda la sua famiglia che sta in Africa. E poi il suo orgoglio che gli impedisce di tornare in Senegal senza essere riuscito a mettere da parte qualcosa. E la necessità di aspettare ancora, prima di costruire una nuova famiglia, aspettare una solidità e un’autonomia economica che – dice – sta per arrivare. Progetta. Concretamente. Non sogna, progetta. E si dilunga. Ora il racconto si è spostato sui suoi problemi di stomaco, descrive i sintomi di una gastrite misteriosa che non riesce a curarsi da un anno, e l’ostilità professionale di medici – i pronipoti del migliore Illuminismo europeo. Io mi distraggo. Zoomo sul dettaglio della sua barba scurissima, poco fitta. Poi sul bianco eccezionale della sclera e dei denti. Ma il ritmo narrativo non regge. Mi volto, come da bambino mi voltavo quando mio padre parlava a lungo coi colleghi di lavoro, in pretura. E cerco passanti, giro intorno lo sguardo, fotografo il cielo, la facciata della chiesa, il culo del bus che arriva in piazza. E poi torno a incrociare lo sguardo del ragazzo, annuisco per far capire che sono attento, presente, accogliente. Come facevo a scuola, durante la spiegazione di Chimica. Il film va avanti da tre quarti d’ora. Non so dove porta, non ricordo da dove è partito. Non ricordo le informazioni che mi sono arrivate. E non capisco quale siano utili, quali superflue. Non riconosco il genere. Poi il film finisce e il ragazzo ci stringe la mano. Io ricambio la stretta con energia, perché lui senta che ci sono – tanto la campana è suonata, e non c’è alcun rischio che l’insegnante mi rivolga qualche domanda e scopra quanti frammenti del suo racconto, quanti dettagli della sua vita sono stati inghiottiti dall’imbuto che porta all’oblio. All’inconscio. Si allontana. Giovanna entra in caffetteria, io resto fuori. Imbraccio di nuovo la mia videocamera invisibile e riprendo a raccogliere e mettere da parte i dettagli della città. E dopo qualche minuto, mi ritrovo a inquadrare la schiena del ragazzo che si muove lento, verso la piazza. Non stacco. Tengo l’inquadratura lunga su di lui. Lo vedo avvicinarsi a un tizio che cammina frettoloso, mostrargli i suoi libri, ma l’altro lo dribbla con sorriso ironico e strizzata d’occhio. Non stacco ancora, continuo a seguirlo. Lui resta sospeso, cammina ciondolante. Si fa più piccolo nell’inquadratura, mentre cerca qualcun altro a cui offrire i suoi libri, qualcun altro con cui tentare una transazione economica. Un gruppetto di tre studenti gli passa accanto, lui sorride, uno dei tre gli dà il cinque. E basta, non guadagna altro che quel battito di mano all’americana. Poi il gruppetto prosegue, e il ragazzo si trova di nuovo solo, si muove in modo irregolare sulla superficie di questo lago, di questo stagno di civiltà. Ed è sempre più piccolo nell’inquadratura, il campo è sempre più lungo. Sempre più figure si interpongono tra il mio occhio e la sua schiena, ma cerco di tenere a fuoco lui. E ancora si avvicina a un passante coi suoi libri, e anche stavolta non incassa altro che un sorriso e tre parole in fuga. L’inquadratura si è già fatta insopportabile, non riesco a sostenerla. Non riesco a digerire questo tempo dilatato, questi tre o quattro minuti di vita di un personaggio che passa da un rifiuto all’altro, che naviga senza remi, su una delle lance del Titanic, sospesa su un mare calmo e civile. Con il rischio costante di morire di ipotermia. E questo piano-sequenza va avanti da anni e proseguirà per altri anni ancora, finché forse il ragazzo non riuscirà a trovare stabilità e autonomia, e potrà avere una donna e una famiglia, e tornare in Africa senza vergogna – in vacanza, magari, o definitivamente. E sento il bisogno di Hollywood, del montaggio all’americana, rapido, levigato, ritmico, spettacolare: sento il bisogno pungente del selvaggio che compare solo per pochi secondi, in una sparatoria o in un’inquadratura descrittiva, per il tempo necessario a far proseguire il treno della narrazione. Il treno che macina chilometri e secoli di progresso, e che, coi suoi finestrini robusti e trasparenti, mi protegge dal malessere, dall’angoscia. Dalla profondità.
Una semplice dilatazione temporale, seppur breve, può permettere l’affiorare di verità che altrimenti restano nascoste, diceva Zavattini. Ci rifletto per alcuni secondi.
Poi Giovanna esce dalla caffetteria. Spengo la videocamera e mi allontano con lei. E il ragazzo esce fuori campo.


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